mercoledì 20 marzo 2019

DONNE DI CARTA : Ursula Iguaràn

Immagine tratta da: https://www.futura.news/2017/06/05/cinquanta-anni-di-macondo/
Due volte ho letto Cent'anni di Solitudine e due volte sono rimasta incantata dalla figura della matriarca, la solida e tenace Ursula Iguaran, che incontriamo, giovane e risoluta, nelle prime pagine e che vediamo lentamente invecchiare pagina dopo pagina, fino a diventare una sottile bambola fragile come una foglia, cieca, che si spegne ad un'età indefinita tra le stanze afose della casa da lei costruita e gestita per anni col piglio di una condottiera, creatura evanescente che mantiene fino alla fine lo spirito indomito che porta nel sangue.
Lei è così. Straordinaria, fin dal principio, fin da quando intraprende alla testa di una carovana un umido e faticoso viaggio attraverso foreste e paludi, cercando la costa e finendo per fondare, assieme al capostipite Josè Arcadio Buendia, il villaggio di Macondo e contemporaneamente la lunga stirpe dei Buendia. Del romanzo in sè ho già tracciato la trama in questa recensione; per maggiori dettagli Wikipedia riporta come al solito una più esaustiva descrizione delle storie e degli eventi.
In questo post vorrei limitarmi a parlare di lei, di Ursula, personaggio femminile a mio parere tra i più interessanti della letteratura contemporanea; perchè lei è, di fatto, l'anima e il fulcro della prolifica stirpe dei Buendia. Non i numerosi uomini, tutti irrimediabilmente afflitti, chi più chi meno, da un destino inevitabile di fallimento; non le numerose, splendide bellezze che si sono avvicendate tra le mura di casa nel ruolo di mogli dei giovani rampolli della famiglia, nessuna delle quali è mai riuscita ad oscurare la presenza ingombrante ed il temperamento risoluto della solida matriarca.
E ce ne rendiamo conto negli ultimi anni della sua vita, quando si è fatta una creatura leggera e nebbiosa con la quale i pronipoti scherzano quasi fosse una bambola, quando, debole e praticamente immobile come una crisalide, continua ad esercitare con la sua semplice presenza l'influenza del suo spirito, quando è inevitabile il confronto con la giovane e bellissima Fernanda, che in quanto moglie del giovane Buendia di turno dovrebbe prendere le redini della straordinaria e complessa famiglia e che vediamo invece soccombere, preda del suo temperamento fragile.
Ursula, invece, è ed è sempre stata l'opposto. Ursula è colei che, sfidando la superstizione secondo la quale avrebbe generato dei figli deformi per aver sposato suo cugino, affronta le paludi malsane ed infestate di zanzare, trascinandosi là dove il destino aveva deciso che sorgesse Macondo e nel contempo dando alla luce i primi tra i Buendia di Macondo; colei che, nel caos di una famiglia confusionaria in cui gli uomini sembrano perlopiù privi di senso pratico ed inclini a perdersi dietro passioni, speculazioni teoriche, bizzarre teorie scientifiche, mantenendo i piedi ben saldati in terra li cresce, li accompagna verso l'età adulta, occupandosi allo stesso tempo di ampliare e arredare l'immensa casa di famiglia, dalle imposte spalancate per far circolare l'aria afosa nell'ora della siesta.
Ursula gestisce, accudisce, sorveglia. Instancabile, avvia una fiorente fabbrica di animaletti di caramello il cui profumo si scioglie nell'aria umida di Macondo, diventandone parte integrante.
Guarda crescere gli uomini di famiglia, li vede perdersi dietro le loro menti sfarfallanti, quando occorre - come si fa a non amarla, quando alla testa di altre mamme di condottieri, affronta impavida suo figlio il colonnello Aureliano ed i suoi commilitoni? - li affronta tentando di farli ragionare.
Li guarda, talvolta, perdersi. Li guarda morire.
Accoglie, negli anni, i loro figli, legittimi o illegittimi. Con occhio vigile osserva le donne di famiglia - tutte bellissime, anzi, più che belle; tutte apparentemente intrise di una sorta di magia che le rende maledettamente attraenti. Le veglia da lontano, interviene per raddrizzarne il cammino, quando occorre; lascia che sbaglino e che finiscano per espiare la loro pena, quando invece lo ritiene opportuno (pensiamo ad Amaranta, ed a come paga pegno con il fuoco per il suo amore malato). Ursula, con le sue brevi, guizzanti, sagge e lucide direttive. "Gli uomini chiedono più di quello che tu credi" dice a Remedios, per esempio, quando cercava di aprirle gli occhi sull'amore. "C'è molto da cucinare, molto da spazzare, molto da soffrire per stupidaggini, e non solo quello che pensi tu".
Ed anche quando la forza fisica la abbandona, anche quando materialmente non è più in grado di girare per le numerose stanze, dirigendo, vegliando, controllando, Ursula non finisce mai in secondo piano, restando presenza muta e potente, quasi fatta di puro spirito.
Tra le tante donne che incontriamo tra le pagine del romanzo, lei è quella che ho più amato, perchè il fascino che emana - e che da giovane ha incantato suo cugino Josè Arcadio - va al di là della bellezza fisica; è la sua forza d'animo, la sua straordinaria energia, la solidità con cui resta in piedi davanti alle avversità della vita, la capacità di decidere in ogni momento cosa sia giusto per sè e per gli altri. Un insieme di queste e di altre caratteristiche che la rendono un personaggio vivo, moderno, una vera matriarca.
Colei che, in mezzo alle numerose burrasche che la famiglia affronta non perde mai la calma, vacilla ma non cade, sembra talvolta cedere ma non si schianta mai.
"Ursula si chiedeva se non fosse meglio sdraiarsi una buona volta nella tomba e che le gettassero sopra la terra, e chiedeva a Dio, senza timore, se credeva davvero che la gente fosse fatta di ferro per poter sopportare tante pene e mortificazioni; e chiedendo e chiedendo andava attizzando la sua stessa esacerbazione, e sentiva un'irreprimibile voglia di lasciarsi andare a imprecare come un forestiero, e di concedersi finalmente ad un istante di ribellione, l'istante tante volte anelato e tante volte rimandato di mettersi la rassegnazione nei fondelli, e mandare una buona volta tutto in merda, e togliersi dal cuore le infinite montagne di parolacce che aveva dovuto trangugiare in tutto un secolo di sopportazione".
Ecco, trovo che queste righe condensino bene l'essenza di Ursula, la sua straordinaria dote di far ruotare gli ingranaggi di una famiglia numerosissima e complicata, della quale lei è il solido fulcro. La stanchezza di una donna che ha attinto a tutta la sua straordinaria riserva di forza per tenere testa ai suoi discendenti, al mondo, alla storia.
Ursula Iguaràn, quercia possente sui cui rami nodosi si snoda, anno dopo anno, la favolosa stirpe dei Buendia.

mercoledì 13 marzo 2019

MESSAGGI IN BOTTIGLIA : Cuore

Il libro Cuore è stato uno dei primi libri recensiti agli albori nel mio blog, in occasione, tra l'altro, dei 150 anni dell'Unità d'Italia (era il marzo 2011, qui la recensione). Un libro, come scrissi anche all'epoca, su cui molti storcono il naso, bollandolo come melenso, retorico, atrocemente distante dal mondo attuale; eppure, scrissi all'epoca e ribadisco ora, ritengo che invece sia portatore di valori e spunti interessantissimi anche per noi, uomini del nuovo millennio.


Anzi, mai come adesso, in epoca di rigurgiti razzisti, di diffidenza verso lo straniero, di divisione, è importante cercare di fermarci a riflettere su cosa significhi "altro", "diverso", "straniero". Ed in questo, mi spiace dirlo per tutti i suoi detrattori, ma lo stucchevole e vecchio libro Cuore, divenuto per antonomasia sinonimo di sentimenti forzatamente mielosi, ha ancora tanto da dire.
Come sempre, nella mia (saltuaria, ahimè) rubrica sui Messaggi in Bottiglia, ovvero su quei classici da riscoprire, mi piace iniziare con la foto dell'autore; ed anche stavolta, dunque, cominciamo da qui. Da Edmondo De Amicis, scrittore e giornalista italiano:

immagine tratta da Wikipedia

Rimando come sempre a Wikipedia per chi volesse approfondire i dettagli biografici; a noi basta sapere che il 17 ottobre del 1886 venne dato alle stampe un libro per ragazzi che doveva avere - nelle intenzioni dell'autore - intenti educativi e pedagogici; e anche ad una lettura superficiale è evidente che Cuore, nella sua retorica romantico-risorgimentale, mira a trasmettere in maniera piuttosto scoperta quelli che erano stati gli ideali alla base delle guerre d'indipendenza e dell'unificazione dell'Italia sotto un unica bandiera. Ideali prettamente laici, dipinti attraverso una serie di racconti edificanti, aventi come protagonisti giovanissimi ragazzi che, chi un un modo chi in un'altro, spesso sacrificando la loro stessa vita avevano combattuto con coraggio e lealtà; racconti che un solerte maestro, assegnato ad una nuova classe, una terza elementare di Torino, somministra regolarmente ai propri alunni allo scopo di instillare loro l'amor patrio, o di rinfocolarne la fiamma.
Cosa ci sarebbe, dunque, di così attuale in un libro concepito e pubblicato per indottrinare giovanissimi italiani ai valori della patria e del coraggio?
Letto in quest'ottica, certamente, nulla. Eppure a mio parere Cuore non è semplicemente questo. Accantonato per un attimo l'intento dell'autore, concentriamoci su ciò che a questi racconti fa da cornice; sul telaio nel quale questi racconti si incastrano, narrati dalla voce paziente del maestro. Allarghiamo l'inquadratura, per un attimo, e focalizziamoci su ciò che vediamo attorno. Sui banchi di legno, sui giovani studenti che lo ascoltano affascinati, su una Torino ingenua e povera, coi ragazzini che giocano correndo scalzi tra le pozzanghere. Ecco, la chiave di lettura "moderna" che io trovo nel libro Cuore è esattamente questa. Nel riscoprire la meraviglia, l'entusiasmo, la straordinaria voglia di fare che solo una città riemersa a fatica da anni di guerra può avere. Cose che per noi, uomini del Duemila, sono tanto scontate da annoiarci.
Ma soprattutto, sulle difficoltà incontrate dalla neonata Italia nel cercare di amalgamare nel suo seno quelli che erano stati, per secoli, popoli tutto sommato differenti, seppure con un denominatore comune che li aveva spinti ad unirsi sotto un solo tricolore. Gente diversa, con dialetti diversi, usanze diversi, mondi che - nell'epoca dei lunghi spostamenti in carrozza lungo strade talvolta dissestate - spesso erano stati isolati nelle loro piccole galassie di rocce e nebbie e pesanti nevicate invernali.
Immaginate cosa doveva essere, alla fine dell'Ottocento, essere un giovane torinese, che magari non aveva mai visto il mare se non in un dipinto. Oppure, un piccolo ragazzino della costa campana, abituato alle fusa rumorose del mare azzurro ed allo stridio dei gabbiani, che ignora cosa sia la neve, e come punga stringendola nel palmo della mano.
Oggi si parla di sovranità, di "prima gli italiani", di nazionalismo, dimenticando che noi fino a poco tempo fa - e forse anche adesso - siamo innanzitutto stranieri per noi stessi, da Nord a Sud. Ci spaventa l'idea di amalgamarci alle altre culture, dimenticando che, poco più di 150 anni fa, siamo stati noi stessi a doverci amalgamare, smussando le differenze spigolose che Nord e Sud si portavano appresso, residuo di diversi dominatori. Da lì, secondo me, vale la pena ripartire. Dal racconto che De Amicis ci fa di un'Italia ingenua, semplice, entusiasta di ritrovarsi unita.
Tanti gli spunti di riflessione che possiamo, volendo, ricondurre all'attualità; in uno dei primi capitoli, ad esempio, quando incontriamo un nuovo alunno, un giovane calabrese trapiantato a Torino con tutta la sua famiglia, che il maestro ci tiene ad introdurre alla classe cui è destinato con un discorso ricco di retorica, certamente, ma che non può non aprire il nostro cuore ad una serie di riflessioni:

"Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria, a più di cinquecento miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, che diede all'Italia uomini illustri, e le dà dei forti lavoratori e dei bravi soldati; in una delle più belle terre della nostra patria, dove son grandi foreste e grandi montagne, abitate da un popolo d'ingegno e di coraggio. Vogliategli bene, in maniera che non s'accorga di essere lontano dalla città dove è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola metta il piede, ci trova dei fratelli."

Mondi distanti, che si uniscono. Stranieri che cessano di esserlo, per diventare un popolo unico.
E ancora, sottolinea il maestro:

"Perchè questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come a casa sua a Torino, e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lottò per cinquant'anno,e  trentamila italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra di voi; ma chi di voi offendesse questo compagno, perchè non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai più gli occhi da terra, quando passa una bandiera tricolore."


immagine tratta da "http://oradarialibera.blogspot.com"


Ora, sfrondando il discorso da tutti gli eccessi retorici, filtrandone lo stillante sentimentalismo, non restano dei concetti attualissimi? Non è amaro constatare che, centocinquant'anni dopo, continuiamo a sguazzare nel pregiudizio tra Nord e Sud? E soprattutto, adesso che il mondo si restringe e i flussi migratori aumentano, non è inevitabile vedere in quel piccolo calabrese dagli occhi scuri, spaurito di fronte alla nuova classe, uno dei tanti bambini figli di migranti?
Lungi da me innescare polemiche di stampo politico. Non è lì che voglio andare a parare. Il senso del mio post è semplicemente quello di constatare che anche un classico così antico, può e deve essere ripescato perchè, continua tra le righe a trasmettere valori e spunti per riflettere, oggi come ieri.
E in un'epoca come questa trovo potrebbe essere estremamente utile ripescare dagli scaffali dove giace ad impolverarsi un libro come questo, che con le vive parole e l'emozione di chi c'era ci sa descrivere, seppure con tanta retorica, quello che eravamo quando, come popolo, siamo nati.
Ritrovare le nostre radici, discuterne magari coi bambini, per capire insieme a loro se e come possiamo affrontare questa nuova era ritrovando in noi quell'entusiasmo un po' ingenuo e quei valori universali che hanno guidato la penna che ha scritto queste pagine.
Forse è un tantino provocatorio, me ne rendo conto. Ma i classici sono tali perchè continuano ad insegnarci cosa siamo, mostrandoci cosa eravamo.